EPILESSIA, LA STORIA

La storia dell’epilessia ha inizio in tempi molto antichi. Etimologicamente il termine epilessia deriva dal verbo greco επιλαμβάνω che, al passivo (ἐπιλαμβάνομαι), significa “essere colto di sorpresa” o anche “essere invaso” e talvolta veniva definita anche morbo sacro. Ciò era dovuto all’inspiegabilità e all’imprevedibilità delle sue manifestazioni, che per molto tempo contribuirono a ritenerla causata da forze maligne della natura o da divinità avverse. Infatti nell’antica Grecia tanto la religione quanto la dottrina medica dei sacerdoti-medici nei templi di Asclepio, concepivano come normale un diretto intervento delle divinità sulla vita dell’uomo e dunque sulle malattie. Le manifestazioni delle crisi epilettiche, che in Gran Bretagna vengono identificate con il termine “fit” e negli Stati Uniti con il termine “seizure”, variano notevolmente. Si passa da brevi periodi di assenza, indicati secondo la nomenclatura francese di Esquirol, “petit mal”, a un periodo ricco di convulsioni o crisi tonico-cloniche detto “grand mal”. Il medico Thomas Willis nel 1667 nel descrivere lo stato di male epilettico affermò che “gli attacchi che si ripetono spesso” tendono a divenire sempre più severi e possono condurre a morte]. I francesi hanno utilizzato la definizione “etat de mal”ed erano consapevoli della gravità . Il dizionario dell’Epilessia edito dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (O.M.S.) ha definito l’epilessia come “un’affezione cronica ad eziologia diversa, caratterizzata dalla ripetizione di crisi che derivano da una scarica eccessiva di neuroni cerebrali”.
Diversi erano i rituali utilizzati per la guarigione dall’epilessia tra cui la “pratica dell’incubazione” (consistente nel far dormire sopra una lastra di pietra nel tempio di Esculapio, dio della medicina, l’individuo affetto da epilessia), l’uso di semi e radici di peonia o della polvere delle ossa di cranio o di sangue umano. Era accertata inoltre l’influenza della luna piena sulla ricorrenza degli attacchi epilettici. Il medico greco Ippocrate di Coo fu il primo grande personaggio del passato a rifiutare il carattere sovrannaturale di questa malattia, come dimostra nel suo trattato specifico sull’epilessia intitolato “De morbo sacro”. Il suo contributo fu fondamentale per elevare la scienza medica a modello di sapere scientifico.

Origine della condizione

Con grande attualità, Ippocrate afferma il ruolo centrale del cervello come sede di tale malattia e di tutte le malattie mentali. È in esso infatti che si formano i piaceri, la serenità, l’allegria, è grazie ad esso che pensiamo, ragioniamo e giudichiamo; esso è però anche causa di pazzia, deliri, smarrimenti e incapacità di comprendere cose consuete.

Nel trattato l’autore descrive con grande precisione la struttura anatomica del cervello precisando come questo sia doppio (come quello di tutti gli altri animali) e diviso da una sottile meninge, e come possa talvolta, per una malformazione embriologica, contenere flegma in eccesso di cui non riesce a purificarsi. Questo fluido, dunque, attraverso le due grandi vene che giungono al cervello dalla milza e dal fegato per raccogliere l’aria da distribuire, si dirigerà nel resto del corpo ostacolandone la necessaria aerazione. Potrà accadere, ad esempio, che vada verso il cuore, provocando in tal caso palpitazioni ed asma, poiché quando il flegma freddo scende verso i polmoni raggela anche il sangue e le vene raffreddate a forza battono contro il petto fino a che sopraggiunge la dispnea. Addirittura vengono messi in evidenza i diversi effetti di tale morbo nel bambino e nell’adulto, o a seconda che i venti spirino da nord o da sud. Ma è interessante notare che l’attenta analisi ippocratica delle svariate condizioni in cui l’epilessia si manifesta, non fa altro che confermare la validità della teoria umorale ippocratica fondata sul contrasto di caldo e di freddo, di sangue e di flegma.

D’altronde questo tentativo di unire anatomia e fisiologia e quindi strutture anatomiche, proprietà degli umori (sangue-caldo, flegma-freddo) e condizioni esterne (come i venti), al fine di fornire una spiegazione dei fenomeni sorprendenti che accompagnano le crisi epilettiche (e le malattie più in generale), è il fondamento del sapere ippocratico.

Ippocrate riteneva che tale malattia avesse struttura naturale e cause razionali e nella sua opera chiarisce come in essa non ci fosse nulla di più divino e sacro che nelle altre malattie. Era piuttosto l’ignoranza degli uomini (quelli che l’autore definisce ciarlatani, maghi, bigotti, stregoni) riguardo alle cause e alle cure dell’epilessia che li stupiva per la stranezza delle sue manifestazioni e che contribuiva alla erronea credenza per la quale era ritenuta di origine divina.

È infatti contro le antiche terapie magiche che gli ippocratici rivolgono la loro polemica, proclamando la loro fiducia nella ragione, capace di cogliere le cause naturali e razionali di questo fenomeno e di spiegarlo, e affermando quindi l’autonomia dell’arte medica. L’autore mette in luce, inoltre, l’impossibilità che l’uomo possa essere contaminato da un dio: essendo infatti il primo corruttibile e il secondo sacro, ne sarebbe al massimo purificato e santificato ma certamente non offeso. Infine egli sottolinea come l’epilessia abbia origini di tipo ereditario ed embriologico, connesse con una malformazione del cervello.

Epilessia nell’antichità

Nell’antichità il male veniva considerato come una realtà esterna ed estranea al corpo dell’uomo, che vi penetra e lo colpisce per volontà di un Dio, irato per colpe, misfatti o omissioni imputabili al genere umano. La malattia rappresenta una sorta di essere che “abita” nel malato. In quei tempi il malato epilettico veniva visto dalla società che lo circondava, come colui che era posseduto da uno spirito maligno, un demone. La convinzione prevalente era appunto che l’epilessia fosse di origine soprannaturale e che in quanto tale non vi fosse alcuna terapia, ma si poteva soltanto confidare in un possibile intervento divino. L’uomo non poteva comprendere le cause del fenomeno bensì soltanto aspettare l’aiuto divino. Per l’appunto tra i più antichi rituali greci ricordiamo la pratica dell’incubazione che veniva praticata presso il tempio di Esculapio e consisteva nel far dormire la persona affetta dall’epilessia su una lastra di pietra in attesa della guarigione notturna ad opera del Dio dell’arte medica. Molto probabilmente il documento scritto più antico che affronta il tema dell’epilessia è costituito da una tavoletta di pietra babilonese conservata attualmente al British Museum. La tavoletta proviene da una serie di quaranta tavole facenti parte del testo di medicina diagnostica babilonese, risale al 500 a.C. ma è una copia dell’originale realizzato tra il 1067 a.C. e il 1046 a.C. Anche i babilonesi erano convinti che le manifestazioni epilettiche fossero opere di demoni. Inoltre il concetto di possesso da parte di questi spiriti malvagi del corpo umano veniva visto come un possesso violento.

Ipocrate e l’epilessia

Il primo grande segno di rottura con il passato è rappresentato dal grande medico greco Ippocrate di Cos (460-377 a.C.). Il suo nome rappresenta un importante punto di partenza per lo studio dell’epilessia. Egli è stato il primo a rifiutare il carattere soprannaturale della malattia. Con il suo trattato il “De morbo sacro” attua una laicizzazione della malattia tendendo a considerare l’epilessia non come una malattia più sacra delle altre ma pari a tutte le altre: «Io non credo che essa sia più divina o più sacra di altre malattie, ma solo che come le altre malattie essa abbia causa naturale e che derivi da questa. Gli uomini invece pensano che essa sia divina per la loro incapacità e per il fatto che essa è straordinaria, non assomigliando a nessuna delle altre malattie […] se la si vuole considerare divina per il suo carattere straordinario, allora molte sono le malattie divine.» L’affermazione che l’epilessia fosse un morbo sacro infatti portava i medici greci a crearsi un alibi per l’insuccesso della terapia che in realtà era dovuto all’ignoranza circa le cause della malattia. Inoltre affermava:«Io non credo che il corpo dell’uomo possa essere contaminato da un dio, il più corruttibile dal più sacro: ma se anche accade che esso sia contaminato o in qualche modo offeso da un agente esterno, da un dio sarà comunque purificato e santificato, piuttosto che contaminato». Un altro importante contributo sulla conoscenza dell’epilessia fornitoci dalle opere ippocratiche è rappresentato dallo studio delle basi fisiologiche del disturbo. Innanzitutto afferma che «il cervello è la sede della malattia come di qualsiasi altra malattia con manifestazioni violente». Inoltre Ippocrate utilizzando la sua famosa “teoria degli umori” cerca di spiegare l’epilessia come un eccesso di “flegma”, provocato da raffreddamenti che portano ad una secrezione eccessiva di muco da parte del cervello. Giunse a questa conclusione dopo varie osservazioni fatte soprattutto su capi di bestiame affetti da tale patologia. Nel suo trattato sono descritte anche le caratteristiche principali delle manifestazioni cliniche dell’attacco epilettico quali: soffocamento, perdita della voce, digrignamento dei denti, fuoriuscita di bava dalla bocca, movimenti convulsivi alle mani e occhi fissi. Tutto ciò viene imputato principalmente alla mancanza di aria nel cervello.

L’Epilessia nella Bibbia

Anche la Bibbia offre un contributo. Vi sono passi del Nuovo Testamento che vi fanno riferimento. Il primo è nel Vangelo secondo Matteo, cap.17, versetti 14-18, ma una descrizione ancor più dettagliata ci viene offerta dal Vangelo secondo Marco, cap. 9, versetti 17- 29:

«[17] Gli rispose uno della folla: “Maestro, ho portato da te mio figlio, posseduto da uno spirito muto.[18] Quando lo afferra, lo getta al suolo ed egli schiuma, digrigna i denti e si irrigidisce. Ho detto ai tuoi discepoli di scacciarlo, ma non ci sono riusciti”.[19] Egli allora in risposta, disse loro: “O generazione incredula! Fino a quando starò con voi? Fino a quando dovrò sopportarvi? Portatelo da me”.[20] E glielo portarono. Alla vista di Gesù lo spirito scosse con convulsioni il ragazzo ed egli, caduto a terra, si rotolava spumando.[21] Gesù interrogò il padre: “Da quanto tempo gli accade questo?”. Ed egli rispose: “Dall’infanzia;[22] anzi, spesso lo ha buttato persino nel fuoco e nell’acqua per ucciderlo. Ma se tu puoi qualcosa, abbi pietà di noi e aiutaci”.[23] Gesù gli disse: “Se tu puoi! Tutto è possibile per chi crede”.[24] Il padre del fanciullo rispose ad alta voce: “Credo, aiutami nella mia incredulità”.[25] Allora Gesù, vedendo accorrere la folla, minacciò lo spirito immondo dicendo: “Spirito muto e sordo, io te l’ordino, esci da lui e non vi rientrare più”.[26] E gridando e scuotendolo fortemente, se ne uscì. E il fanciullo diventò come morto, sicché molti dicevano: “È morto”.[27] Ma Gesù, presolo per mano, lo sollevò ed egli si alzò in piedi.[28] Entrò poi in una casa e i discepoli gli chiesero in privato: “Perché noi non abbiamo potuto scacciarlo?”.[29] Ed egli disse loro: “Questa specie di demoni non si può scacciare in alcun modo, se non con la preghiera .”»

Da questo passo prenderà spunto il dipinto la “trasfigurazione” realizzato nei primi anni del Cinquecento da Raffaello. Un altro riferimento biblico ci viene offerto anche dal Vangelo secondo Luca, cap. 8, versetti 38-42.

Tuttavia, è importante notare come questo passo biblico che caratterizza la presenza di questa patologia nel testo sacro, sia probabilmente il frutto di un errore di traduzione: il termine utilizzato dall’evangelista nel testo originale, difatti, è seleniàzomai, che, tradotto letteralmente significa “sono lunatico”.

Le traduzioni originali contenevano difatti il termine lunatico, non epilettico, un termine che rimanda anche al concetto di follia e di possessione demoniaca.

Il termine lunatico in riferimento al protagonista del passo biblico fu sostituito con il termine epilettico solo successivamente e per ragioni non chiare, un’ipotesi è che nell’antichità si riteneva che l’epilessia fosse condizionata dalle fasi lunari e, dunque, i traduttori del tempo tradussero arbitrariamente il termine lunatico con epilettico.

La storia dell’epilessia risulta anche segnata dalle vite di molti Santi che soprattutto durante il Medioevo furono invocati come protettori degli epilettici. Ve ne sono stati più di una ventina, di cui la maggior parte fu decapitata. Tra tutti ricordiamo: San Giovanni Battista, San Vicinio, San Genesio, San Vito, San Donato e soprattutto San Valentino, il quale viene ricordato per aver guarito Cheremone, figlio epilettico di Cratone, maestro di retorica a Roma. Dopo l’avvenuta guarigione tutta la famiglia del ragazzo si convertì al Cristianesimo. In seguito i pagani lo uccisero il 14 febbraio.

Galeno (130-210 d.C.)

Galeno distingueva due gruppi. Il primo era definito idiopatico e messo in rapporto a perturbazioni umorali del cervello a causa del freddo. Il secondo simpatetico in relazione con malattia sistemica con produzione di sostanze tossiche. Si occupò dei segni premonitori delle crisi. La parola Aura deriva dal greco e significa alito di vento. Galeno distinse segni di natura sensitiva come l’avvertire dei rumori alla testa o neuropsichica come l’impaccio nell’eloquio.

Medioevo

Circolavano tre teorie sull’eziologia che attribuivano la malattia a forze soprannaturali, ad umori ed a sostanze tossiche ed irritanti. La farmacopea dell’epilessia comprendeva pozioni a base di cranio umano polverizzato, fegato di avvoltoio e vischio. Le erbe curative erano molto apprezzate.

Età moderna

Un notevole passo avanti nella comprensione dell’epilessia e del ruolo della chirurgia nel trattamento fu compiuto nel XVI secolo. Ambroise Paré (1517-1590) migliorò molto il trattamento dei traumi cranici ed ideò uno strumento chiamato speculum oris che impiegò per vincere le contrazioni delle mascelle durante gli attacchi epilettici mantenendo le arcate dentarie separate al fine di prevenire la morsicatura della lingua[19]. Nel XVII secolo Willis nell’osservare le convulsioni febbrili intuiva che c’è una certa predisposizione alla malattia sia innata che acquisita.

L’inizio della terapia medica dell’epilessia

Dopo secoli e secoli di buio, basti pensare alla trapanazione di una primitiva arte medica risalente al periodo neolitico testimoniata dal ritrovamento in quasi ogni parte del mondo di numerose scatole craniche con dischi di osso rimossi, verso la metà del XIX secolo studiosi contribuirono ai progressi nella comprensione della neurologia e soprattutto dei molteplici aspetti dell’epilessia. Vi furono infatti vari tentativi di studi sistematici su vari metodi di terapia. Uno dei primi fu Esquirol, il quale sottopose 30 pazienti ad una serie di terapie per verificarne la loro efficacia. I suoi metodi terapeutici spaziavano dalle trasfusioni di sangue a purghe, bagni, cauterizzazioni e somministrazioni di sostanze varie. Sfortunatamente non riuscì ad ottenere grandi risultati da questa sua indagine, infatti tutte le terapie si mostrarono in parte inefficaci e in parte riuscirono a controllare gli attacchi solo per brevi periodi di tempo e per effetto placebo. Nelle terapie adottate in quel periodo si faceva uso di una vasta gamma di rimedi naturali, come il vischio, e successivamente anche di composti inorganici come il nitrato di argento e l’ossido di zinco, che però anch’essi ottennero risultati insoddisfacenti. I primi risultati positivi furono ottenuti da Sir Charles Locock, ostetrico della Casa Reale Britannica. Egli portò a termine vari studi sulle convulsioni e in particolare ottenne un gran successo con la terapia basata sull’uso del bromuro di potassio. Con questo trattamento su 15 casi epilettici era riuscito a ottenere il successo in 14 casi. La terapia effettuata su questi pazienti durò quattordici mesi e consisteva nella somministrazione di 10 grani di bromuro di potassio 3 volte al giorno. Alcuni pazienti non ebbero più manifestazioni epilettiche. Vi erano comunque molti dubbi tra gli studiosi e lo stesso Locock, sul fatto se fosse da attribuire al potassio piuttosto che al bromuro l’azione farmacologica desiderata. Nonostante tutto non tutti coloro che ne fecero uso ottennero risultati soddisfacenti anzi si scoprì che dopo l’interruzione del trattamento le crisi epilettiche si facevano sempre più violente e che quindi occorreva una graduale riduzione del dosaggio.Gowers nel suo libro sull’epilessia, del 1881, dedicò varie pagine all’utilizzo del bromuro ma anche ad altre forme di trattamento ormai ritenute di scarso valore come l’utilizzo dello zinco, che secondo varie teorie era in grado di produrre gli stessi effetti del bromuro, ed anche la somministrazione del ferro. Inoltre nel suo libro fa anche riferimento all’uso della digitale, un rimedio molto antico e molto popolare in Inghilterra, che era in grado di ridurre la frequenza degli attacchi e a volte a farli cessare per brevi periodi. Il XIX secolo fu dunque un periodo di grande espansione delle conoscenze sulle terapie epilettiche e fu anche il periodo in cui emerse il problema dello stato di male epilettico.

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